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La Storia di AVEZZANO

negli scritti di Ellegì


 
 
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La Città di Avezzano

Si può dire, pertanto, che questo sia l’unico ricorrente motivo delle pagine di Giulio Lucci: il grande amore, cioè, che egli (nato e vissuto ad Avezzano) prova per la sua città, di cui non sa nascondersi i piccoli e grandi difetti, le brutture evidenti e nascoste, ma che, nonostante tutto, è sempre la più bella, la più cara, la più grande città del mondo. Ogni volta che Ellegì parla di Avezzano, sembra che gli si allarghi il cuore: è quella Avezzano che egli guarda dall’alto del Colle Salviano e per la quale l’autore sente di dover ringraziare e di dover invocare la Madonna di Pietraquaria, che dal colle garantisce aiuto e protezione e sicurezza ad una città che il terremoto del 1915 aveva completamente distrutta.
E, forse, proprio questo ricordo costante del terremoto, ancora vivo nella mente e nel cuore di molti avezzanesi, rende così forte e profondo l’attaccamento dell’avezzanese Giulio Lucci alla sua città.
“Matònna de Petracquale, ajutace!  Le sì viste, quande je tempe è bone, dalla via Tè, già doppe la Curva delle Castagne, se Te fìrme e guarde Avezzane nostre, cuccì a prima bbòtta, Ti pare una grande Città: palazze, vie larghe ’rberàte, tìtti delle case beglj puliti che te renfiàte. Matònna mé, quand’è beglie Avezzàne viste daglje Sarviàne, che sembra Longhebicce, sembra!!!”.

C’è, è vero, il rischio della monotonia, della ripetizione.  Ma Giulio Lucci sa variare lo sfondo, la cornice, tanto che, ogni volta, quello che egli dice (o scrive) sembra nuovo, scritto o detto allora per la prima volta.
Avezzano non è bella soltanto perché dall’alto può offrire un panorama incantevole: è bella e grande anche per quel poco che ha e per quel tanto che non ha, ma spera di avere. È bella per i suoi sogni e per i suoi desideri.
Ma questa città, che suscita tanto amore in Giulio Lucci, oggi sta perdendo man mano la sua fisionomia specifica, le sue tradizioni, i suoi “valori”. Le giovani generazioni non sentono più l’amore per la loro città, per il loro passato, per il bel dialetto di Avezzano.
Ed è questo il secondo motivo fondamentale, ugualmente ricorrente nelle pagine di Ellegì: il rimpianto, cioè, per un bagaglio culturale che muore, soprattutto perché i giovani non lo “sentono” più e perché le novità provenienti dal di fuori (anche le più brutte ed inutili) attraggono le giovani e giovanissime generazioni, che non vogliono più saperne di ciò che facevano e dicevano e pensavano i loro padri.
 I giovani vogliono vivere la loro vita, seguendo altri modelli ed altre idealità.
In questo secondo “motivo” Giulio Lucci fa rientrare la sua polemica, leggera e sorridente, ma spesso esplicita, contro le mode americane e americanizzanti, contro la musica rock e i balli sfrenati, contro le “tomociclette” e le automobili, contro le comodità e il lusso dei tempi moderni, in una parola contro il “consumismo” emergente in una società agricola e patriarcale qual era stata fino a quel momento la Marsica, il Fucino, Avezzano.
Ma, soprattutto, vi è la tristezza di chi si accorge che il dialetto di Avezzano sta scomparendo, e che i giovani non vogliono più saperne:

“Quande parle de ’ste cose a quissi motèrni, sa come te respònnene?
 - E voi ci credéte che solamente prima del terramùte se steva bbone e se campéva contenti???
Ma voi vecchi siète stùpidi e vi siete ’ncapuniti che glje grande fessarìe degli tempj vostri. Che, prima Avezzane tenéva la ’mportanza che ci’ à mò? No! Che, prima del terràmute c’erano le vie, i marciappiedi e i palazzi che ci sono adesse? No!
La Riforma Agraria, la legge Stralce e tutte l’àtre apprèsse, le tenéste prima? No! E che tenéste? Giuste j’occhi pe’ piàgne!!! Lo sapete che bisogna dire a voi vecchi? Il Terramùte vi ha salvate e vi ha portate la civiltà e il benessere!!!”

Ed ecco come il “cafone” Biasine risponde a questi giovani:

 “Je a chi parla ssucì sa che biastìma che jetterìa, Rantù?
Sciccìsi, e v’accitìssere pe’ davére, s’acquante, nen fusse mai (Matònna de Pietracquale lìbberace) ti ficésse ’na trettecatella di Terramùte che acquante bastésse pe’ fa’ cascà un po’ di cretàzzo, adò varrìa a finì tutta ’ssa ’ngustia e ’ssa superbia?
Sicchè so fessarìe quele deglj tempi nostri? Sciète sparati, e sole la parlatura nostra? Tenéme ne dialètte, nù vecchi de’ Vezzane nostre, ch’è la più mèglie lingua ’taliana!!! Nn’è le vere, Rantù, che je tialette nostre è ’na freca simpatiche?”.

Scopo di questo CD, dunque, è quello di far conoscere anche alle nuove generazioni gli scritti di Ellegì: questa Avezzano antica, un po’ conservatrice, com’è conservatrice qualsiasi cultura contadina, una Avezzano che permane nonostante le trasformazioni e le novità.
Non tutto, di Ellegì, possiamo registrare. Ci limitiamo, dunque, a quei brani che, più degli altri, ci sono apparsi caratteristici e facilmente fruibili.
Comunque, anche il lettore non avezzanese potrà capire il dialetto di Ellegì, che è un “avezzanese italianizzato”, un “patois” potremmo dire, in cui gli elementi originari si sono fusi con le espressioni più moderne e con l’italiano popolaresco della società di massa.

   
         
 
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